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ALDA MERINI E PIER PAOLO PASOLINI – CI DICHIARIAMO DISARMATI

Scaletta intervento – 14 Luglio 2022 – Terme Tamerici, Montecatini Terme

di Margherita Caravello

PERCHÉ E COME ACCOSTARE QUESTE DUE FIGURE?
COME? In un gioco di parallelismi di date, partendo dal presupposto poetico che il caso non esiste e tutto accade per una ragione a cui non sempre ci è dato di accedere in anticipo.
Ripercorrendo le tappe salienti del loro andare per date significative in cui li vedremo intenti, entrambi, a portare avanti la propria esistenza e personale urgenza, emergono incontrovertibili segni di una affinità innegabile di gesti e di parola, di tempra, indomita, e di urgenza. Necessaria.

Entrambi prolifici, versatili, generosi e frammentati, han mischiato versi e prosa e immagini statiche e in movimento, e musica, tanta musica a cullare il tutto. Il loro può essere interpretato come il solo possibile compimento di un’esistenza in cui, per paradosso, han saputo domare il proprio destino solo accogliendolo, andandogli incontro, accettando un’assoluta sottomissione ad esso.

Nascita (e morte) – Nati entrambi a Marzo, in aria di primavera, e ostinati, irriverenti, irruenti e innamorati di ogni nuovo giorno come un miracolo di nuove possibilità, per tutta la vita e nonostante ogni tortura. Morti nella notte di Ognissanti, prefigurazione di quel che sarebbero assurti a significare per noi, che veniamo  dopo, e ancora nelle loro opere che sono testimonianze di vitalità umanissima ci cerchiamo e ci facciamo forza.

«Nello sviluppo del mio individuo, della diversità, sono stato precocissimo; e non mi è successo, come a Gide, di gridare d’un tratto ’Sono diverso dagli altri’ con angoscia inaspettata; io l’ho sempre saputo» scriveva Pasolini nei giovanili «quaderni rossi». E questo sentimento di diversità che domina tutta la sua opera – coscienza della propria omosessualità, certo, ma anche un senso più vasto di spaesamento geografico, temporale, e sociale – troverà subito un nome: quello di poesia.

Margherita Caravello e Antonella Birindelli

Pasolini nasce a Bologna nel 22, sua madre è un insegnante friuliana, suo padre un ufficiale. Per via del lavoro del padre e poi della guerra la famiglia si sposta spesso. Pier Paolo si scopre poeta che è ancora un bambino e vive in campagna, a Casarsa, paese di origine di sua madre, dove rimane stregato dalla natura nel suo manifestarsi.

Sono nata il 21 a primavera, ma non sapevo che nascere folle aprire le zolle potesse scatenar tempesta.

Questa è Alda, e potrebbe rispondere così, con l’incipit di questa poesia in cui La follia  è prolifica come la terra smossa, è generosa e abbondante come la primavera. Potrebbe rispondere così nel dialogo che immagino tra loro, fatto di botta e risposta al tavolino di un bar, a Milano, a sera, brindando a coca cola alla loro comune ebrezza per la poesia, non voluta ma accolta come una parte di sé costituzionale, come un organo, un’articolazione. E difesa con urgenza e fiducia cieca ben oltre la deriva dello stigma sociale, inevitabile, che precipiterà rovinoso su di loro.

L’infanzia di Alda è borghese, con direbbe Pier Paolo, i suoi non stanno né bene né male, il padre è impiegato alle assicurazioni generali, la madre, figlia di due insegnanti di Lodi, è casalinga, bella come una Maddalena ma più vera, più peccatrice. La severità del suo sguardo andava di certo oltre l’anima. Così ce la racconta Alda, la cui Timidezza, le ha sempre impedito di dichiararle il suo amore. A dieci anni vince il titolo di piccola poetessa dell’anno, la premia la regina Maria José in persona. Poi, arriva la guerra, lo sfollamento in campagna, il figlio maschio. Alda non può più studiare.

Durante la guerra muore il fratello di Pier Paolo, da partigiano. Lui scappa. Il padre di Alda viene mandato al confino perché ha studiato e non è fascista. Tornerà, smunto come il fantasma di sé stesso. Nel dopoguerra si raccolgono i pezzi di quel che resta, ci si reinventa, con lo slancio impareggiabile di un rinnovato apprezzamento per la vita alternato a inconfessabili nevrosi giovanili, al trauma recente e mai sopito veramente. Si torna alla vocazione per la poesia e alla contestazione, pacifica ma determinatissima, di quel che da altri vien suggerito come il meglio per loro.

Alda Merini

Il salotto intellettuale di via del Torchio a Milano, ospiti di Giacinto Spagnoletti, con Turoldo, Erba, Quasimodo, Manganelli, Maria Corti.

Non un salotto, ma un modesto appartamento. Non si trattava di ritrovi organizzati; si capitava lì alla spicciolata, quando si poteva. In via del Torchio io ho vissuto la mia prima società poetica. Per società intendo dire che sul divano sedevo gomito a gomito coi grandi della poesia, con la classe del rinnovamento letterario. Uno  accanto all´altro, ci si sedeva pieni del fragore della Storia che stava per nascere, per noi mutilati dalla guerra. Io ero la più giovane di quei poeti e la meno istruita, e mi fu data la Storia della letteratura di De Sanctis.

Ricordo #Erba, sempre allegro e dispersivo. #Pasolini, taciturno ma pieno di resistenza fisica. #Turoldo dalla voce tonante e bellissima che pareva la reincarnazione della ´scapigliatura´ redenta. Più che una scrittrice io ero la loro mascotte: giovane, taciturna, forse bella, con due fianchi di cui mi vergognavo e cercavo di nascondere».

Alda Merini tante vergogne se le è lasciate alle spalle dopo aver assistito alla brutale realtà dell’internamento manicomiale, dieci anni dietro quei cancelli, dopo una sfuriata col marito in cui volarono le sedie. Finì per farsi ritrarre nuda a settant’anni suonati, da un amico fotografo. Il corpo stanco, provato da quattro gravidanze (figlie che non le fu concesso di allevare perché pazza) sottoposto a mille sofferenze. Per dare scandalo, per ricordare alla gente che non è il nudo in sé ma l’imperfezione che non sappiamo accogliere.

Sono stata io a volerlo. Mi fa sorridere il moralismo della gente, non lo tirano fuori per il nudo in sé, ormai ovunque, ma per quello non perfetto. E’ l’imperfezione a scandalizzare, come fosse una colpa. Il mio è stato un gesto di provocazione, e anche di profondo dolore: in manicomio ci spogliavano come fossimo cose. Mi sento nuda ancora adesso.

Ma a 15 anni, quando esordì come Poeta, Alda che pure aveva avuto già qualche segno delle “prime ombre della sua mente” come le descriverà, è già consapevole che la poesia la strapperà da una vita come tutte le altre, da una vita facile, e ci si affida, coglie la sfida come chi non può fare altrimenti. D’altronde l’accoglienza per la sua Presenza di Orfeo, la sua prima raccolta di poesie,  fu clamorosa:

«Di fonti per la bambina Merini non si può certo parlare: di fronte alla spiegazione di questa precocità, di questa mostruosa intuizione di una influenza letteraria perfettamente congeniale, ci dichiariamo disarmati». 

Ecco come #PierPaoloPasolini recensì il debutto poetico di #AldaMerini.

All’alba di tutto quel che sarebbe diventata, il genio di Pasolini riuscì a cogliere nella bambina Merini (lui stesso scrisse la sua prima poesia a soli 7 anni) un potenziale che aveva dell’incredibile: quel che sapeva, Alda Merini l’aveva imparato da sé, rubacchiando a tarda sera quel che trovava nella scarna libreria di famiglia. Tutto il resto lo aveva immaginato e sentito, e così distintamente da rendere la sua scrittura ben più matura della sua età.

Frequentando entrambi il salotto intellettuale di via del Torchio a Milano, l’unico rimasto in piedi dopo i bombardamenti, e stretto abbastanza da farli star seduti gomito a gomito, si sono studiati a vicenda. Lui la guardava di sottecchi, lei si sistemava la camicia a coprire i fianchi e però si domandava perché lui fosse l’unico a non farle la corte.

Si persero di vista quando lui si trasferì a Roma, e quando ad Alda ristrutturarono il solaio anche la loro preziosa corrispondenza andò persa. Alda se ne dispiacque ma seppe sempre consolarsi perché, diceva:

«Pierpaolo è vivo nella mia mente, ogni tanto mi viene a trovare, di notte, quando nessuno mi risponde al telefono, quando il silenzio del poeta partorisce la poesia e le stelle, il suo enigma e la sua ostinazione».

Disarmati e ostinati, Pier Paolo Pasolini e Alda Merini sono andati incontro alla stessa società con pari fuoco in corpo, e sebbene sia lontano il tempo dei loro battibecchi pieni di stima reciproca a Via del Torchio, la loro comune impronta rimane salda e vivida anche oggi, ché non c’è chi non si senta chiamato direttamente in causa di fonte ad affermazioni come questa:

«Le nevrosi che causano le regressioni più terribili e incurabili sono dovute proprio a questo sentimento primo, di non essere accolti nel mondo con amore».

Ecco l’amore, in tutte le sue sfaccettature, come prima chiave di lettura delle loro vite capolavoro.

Proprio a proposito dell’amore concesso, si manifesta in entrambi un genuino, naturale dissenso nei confronti di una morale troppo rigida per contenere i loro slanci appassionati: Alda si innamorò ricambiata di Giorgio Manganelli, che le sbriciolava nella scollatura e le regalava le sue traduzioni di Shakespeare. Ma lei era un minore e lui un marito ed un padre, e fu costretto a fuggire da Milano a Roma in sella alla sua Lambretta e senza avvertire nessuno per non incorrere, oltre che nelle botte dei familiari, in un processo penale. Pasolini dal canto suo, che era del 22 come Manganelli, di processi ne subì a iosa, a partire proprio da quello per corruzione di minore, nel 49 quando di anni ne aveva 27 e che lo costrinse a sua volta a riparare con la madre a Roma. Nella metropoli ebbe modo di incontrare i suoi Ragazzi di vita, e fu a causa del romanzo omonimo in cui scrisse di loro che fu convocato a Milano, e portato alla sbarra, denunciato insieme all’editore Livio Garzanti per oscenità. La gente per bene non era pronta a concepire che anche quel che non era abituata a vedere fosse realtà. Si concluse con un nulla di fatto perché “il fatto non costituisce reato”. Ma segnò l’inizio dello scandalo che lo avrebbe sempre accompagnato.

Alda Merini rincorsa dalle malelingue non rinunciava al suo trucco pesante, alle sue giacche estrose, alla sua indole si bambina ma erotica insieme, fu la disperazione di sua madre e fu caldamente invitata a sposarsi un brav’uomo, un lavoratore senza grilli per la testa. Scelse in tutta fretta un fornaio, un bell’uomo che di poesia non ne voleva neanche sentir parlare.

Alda, che avrebbe voluto studiare, che non si sentiva solo moglie e madre, che dava ripetizioni agli studenti dell’università dall’alto della sua formazione professionale dopo che alla prova d’ammissione al Liceo Manzoni fu bocciata, in italiano, come Pier Paolo del resto. Provò a saziare così la sua fame di sapere, ma c’era sempre qualcosa da fare in casa.

Quella routine nella quale aveva provato a cimentarsi, le  appariva sempre più ottusa e più distante. Resse dieci anni, ma finì male, in lite furibonda col marito. Fu chiamata l’ambulanza. Fu Internata con diagnosi incerta, forse disturbo bipolare, forse schizofrenia ebefrenica. La psichiatria di allora era  agli albori di una nuova era, ma quel che Franco Basaglia insegnava, cioè ad ascoltare i pazienti, le loro paure, i loro bisogni, senza camicie di forza ed elettroshock, non era ancora matura per la rivoluzione che portò nel ‘78 alla chiusura dei manicomi in Italia, in prima linea sul resto del mondo.

Alda fu internata una domenica, era il 31 ottobre 1965. Ne uscirà definitivamente solo dodici anni più tardi, nel 1972. Dodici anni di assordante silenzio.

Pasolini è a Roma, scappato alle malelingue della provincia. La metropoli ai suoi occhi è più suggestiva e più vera, di brutale purezza, in periferia. Le voci non corrono così lontano, si è Laureato in Lettere a Bologna con una tesi su Pascoli, il classico dei classici, rimedia un impiego da insegnate in ciociaria. Lo lascerà presto, preso totalmente dalla sua arte In mutamento.

L’anno in cui Alda viene internata coincide Per Pasolini con un cambio di linguaggio radicale da poesia a cinema, in aperta rottura con la lingua e con chi la parla. Atterrito dalla dualità per cui sente di doversi mostrare in un certo modo, tagliando fuori quanto ha di sé di più vero, costantemente giudicato e frainteso, passa al cinema: Il suo cinema mostra la realtà attraverso la realtà stessa: niente di più vero, immagini viscerali, di una umanità complessa, che si sa ma che non la si mostra, come una vergogna, come una macchia.

Quell’anno Pasolini pubblica la sua raccolta di POESIE IN FORMA DI ROSA

Poesia in forma di rosa
Ho sbagliato tutto.

Sbagliava, spaurito al microfono / Sbagliava, con la sua balbettante bravura, / rispondendo a domande di amici o fascisti, / Maciste magretto della letteratura.
Quello là, che aveva tanta ragione, / sbagliava tutto.

succube degli impeti di morte / che mi salgono dal ventre, batterei
il capo, muto, contro i vetri / del tassì che percorre / l’orribile autostrada dove è chiaro
che sono senza amore, mentre, barbaro / o miseramente borghese, il mondo è pieno,
pieno d’amore

io vado constatando, coi pugni sul ventre, / la mia mancanza di amore, fino all’ultima lacrima.

Ecco l’amore cercato che, non trovato, aumenta il bisogno fino a diventare come un vaso rotto, incolmabile, sempre un po’ vuoto per quelle crepe antiche da cui cola via sempre qualcosa, qualcosa che sempre manca, la cui ricerca si fa sempre più disperata.

Sentite come gli fa eco Alda, rinchiusa per eccesso di energia poetica, per mania dell’eterno lei che le rose le osservava da una grata arrampicarsi sulle mura esterne della sua prigione fino alla libertà. Il giorno in cui aprirono i cancelli e permisero ai pazzi per la prima volta di uscire nei giardini Alda se le mangiò, quelle rose, per saziarsi di tanta vita fino ad allora negata. La rosa, densa di significati, è stata immagine ricorrente nell’opera della Merini Poeta, intimamente consapevole d’essere, come la rosa, setosa e spinosa, viva per il sole e l’aria che si respira, nel linguaggio dei fiori la rosa è passione, desiderio, che in quanto tale non è mai pago.

Rose di poesia / che crescete e sbocciate / senza che nessuno / si curi mai di  voi
come i puri miracoli /che sempre accadono /con la  forza immane del mistero.

il tema qui è l’abbandono e la forza che ci vuole a rimanere in piedi con solo, per le mani, il duro della  propria pazienza:

Tu cerchi di capire perché la persona amata ti abbia lasciata sola nel freddo della tua demenza, nel duro della tua pazienza, ma non ti rimane che una nascita divorante, un pugno di paglia sofferta su cui non puoi più adagiarti.

Perché tanta sofferenza non nega, non esclude, non cancella e non nasconde il desiderio di sperimentare l’umanità, di mettervi radici, come se non ci fosse alternativa alla fiducia, alla commistione, alla diluizione di se stessa negli altri. Non può farne a meno, e per farlo richiama a sé tutto il suo coraggio:

“È Un mondo, il mio, che si confronta con le cose del quotidiano. Non mi piacciono i poeti che scrivono cose, magari bellissime, sul destino del mondo e non sono neanche in grado di accorgersi della vicina di casa che sta male. In quello che è il disordine della mia vita, ho sempre cercato di essere disponibile e aperta al mondo

le risate allegre nei giardini della follia, qualche mela rubata, le rose mangiate vive. Amavamo i fiori come le bestie.

Pasolini nel frattempo è intento a scuotere più forte come a prenderla per le spalle, questa società ipocrita. Lui che è uno che non grida mai, ma che alza con la propria altre voci in un crescendo in cui finisce per investire e scommettere tutto se stesso.
Siamo ancora nel 1965 viene anche data alle stampe Alì DAGLI OCCHI AZZURRI la sua raccolta di racconti che furono poi soggetto di film che avrebbero lanciato Pasolini come regista, tra cui “Accattone”, di cui abbiamo visto il trailer, che ha dalla sua un primato in quanto è stato il primo film vietato in Italia ai minori di 18 anni, e poi “Mamma Roma” con Anna Magnani, “La ricotta” con Orson Welles. Con questi racconti, scritti dal ’50 al ’65, lungo un arco d’anni occupato da un intenso dibattito culturale, Pasolini testimonia, per così dire, «dall’interno» in modo diretto e immediato, con realismo, la società sommersa, quella dei poveri nelle borgate e delle loro quotidiane scommesse per sopravvivere giorno per giorno.

Pier Paolo Pasolini

asce in questo contesto il suo CINEMA DI POESIA, presentato proprio nel 1965 in occasione del Festival internazionale di cinema di Pesaro, a cui partecipò tra  gli altri anche Roland  Barthes. Si tratta di un cambio di linguaggio che ha come scopo una più ampia portata del messaggio, che abbia l’universalità dell’immagine come pilastro, e un attento studio delle inquadrature e del montaggio, per guidare la visione dello spettatore proprio dove il regista ha interesse che vada a guardare, per una più vivida partecipazione dello spettatore alla narrazione. Un valore aggiunto quindi, uno studio accurato e di senso dietro ad ogni elemento del film. Uno stile innovativo, una cornice ragionata al dettaglio entro cui si muovono attori presi dalla strada e divi internazionali, accenti marcatamente regionali, miseria tutt’intorno, storie che fanno discutere parecchio.

Uno stile che fu  riconosciuto e sposato anche dai collaboratori più prestigiosi e capricciosi di Pasolini: Ennio Morricone, giusto per nominare un gigante, non accettava mai lavori in cui non avesse libertà espressiva. E ugualmente Totò. Ma di Pasolini compresero l’urgenza comunicativa impetuosa, lo riconobbero un maestro, e si lasciarono guidare entrambi, in ogni smorfia e  in ogni nota. Forse non sapete che Pasolini fu talmente al centro di ogni suo film che fece a lungo anche l’operatore di sé stesso: imbracciava la macchina da presa e per 8/9 ore al giorno ne reggeva il peso senza battere ciglio.

Margherita Caravello con Amedeo Bartolini che da Assessore alla Cultura del Comune nel dicembre 1973 promosse il Progetto “Processo allo scrittore”

Anna Magnani, invece, senza mezze parole gli disse nei denti “NON SONO UN ROBOT”. Finirono di certo per mettersi d’accordo, dato il  risultato trionfale del film. Lui di  lei raccontava, rapito, così:

“Osservo Anna Magnani, là in fondo, sul divano del salotto elegante, dietro un prezioso pezzo d’antiquariato, carico di scatolette e vassoietti  di dolci di prima qualità. Tace, mezza nascosta. La pelle è bianca, e i due occhi sono come un grande fazzoletto nero, che la fascia sopra il naso. Tace, ma sta col busto eretto, come doveva stare sua nonna, un secolo fa, sulla porta di casa.  Vedo però, che il suo silenzio è inquieto: dietro la fascia nera degli occhi passano ombre più nere, interrotte, riprese, ora represse come un piccolo rutto, ora liberate come risate. È chiaro che la gente che ha intorno la comprime, la fa rientrare dentro la sua forma, come un liquido spanto che possa fluire dentro il vaso, e starsene lì, buono buono.

Beve lo champagne, sublime, dell’ospite: e si prende la toppa. Dopo qualche minuto si alza dal suo angolo, grida che va al gabinetto e, quando ritorna, si siede in mezzo alla stanza, su un seggioletto in mezzo al grande tappeto verde. È come su un palcoscenico: sta seduta sempre col busto eretto e le zinne sporgenti: due belle linee, perché, in questi ultimi tempi, si è rifatta “bona”. Sempre come la nonna, con un vestito che chissà come mescola l’ultima moda con la moda eterna delle popolane ciociare o burrone, se ne sta seduta in posizione di sfida.

La fascia le è cascata dalla faccia bianca, e i due occhi, galleggiando sulla loro pece, lampeggiano timidi e malandrini, lanciano occhiate di scorcio. troncate a metà: o prolungate con un’altra espressione, che distruggono e lasciano come uno stupido chi la guarda.

Questa sensazione di essere stupidi, che si prova di fronte a lei, si tramuta subito in tenero affetto. è la stessa cosa che capita a dei giovincelli, sia pure malandrini, che arrivano sparati in motocicletta  davanti a una prostituta, che li aspetta, ferma, seduta su qualche panchina a Caracalla. Di fronte alla sua aria di sfida con cui si difende , anche i più dritti perdono la bussola, e stanno lì, locchi locchi, come davanti alla statua di una santa miracolosa.

Dall’aria di sfida di Anna , può nascere qualsiasi cosa: ma quello che ci si aspetta sempre, comunque, è che canti. Uno stornello. Di quello vecchi, appena rinnovato da qualche allegra invenzione , e che finisce ridendo. Lei non può che esprimersi cantando, perché ciò che ha da esprimere è una cosa indistinta e intera: la pura vita, sua, e delle generazioni di donne romane che sono state al mondo prima di lei…”

Pier Paolo Pasolini. “Sette storie di Pier Paolo Pasolini” in “Donne di Roma:

Sempre nel 1965 gira la sua Dichiarazione d’amore all’Italia – “Comizi d’amore” – l’inchiesta di cui abbiamo visto qualche estratto nella presentazione. Non è solo un’inchiesta su sesso amore e coppia in Italia, ma è un ritratto dell’Italia, delle diverse Italie che non si conoscono, non si parlano e non si comprendono non solo da una regione all’altra, ma anche da un gruppo sociale all’altro. Con straordinaria delicatezza Pasolini in veste di documentarista fa parlare, ascolta, sorride, cordiale, tutt’al più ironico. Non  viene mai meno il suo profondo rispetto umano per i singoli, e per il popolo che in essi è rappresentato, anche quando dan fiato a mentalità grette pure per quel tempo. C’è molto di lui, in questo documentario: c’è la critica alla società del benessere che non produce né benessere né progresso spirituali; c’è l’amore con cui Pasolini accoglie e perdona sempre l’oggetto del suo sguardo, come Alda Merini del resto, e c’è  l’elogio degl’inconsapevoli, degl’innocenti e degl’ignari anche se ha capito che non si ha più il diritto di essere inconsapevoli, innocenti ed ignari.

Pier Paolo Pasolini intervista Giuseppe Ungaretti

All’epoca in cui fu girato (1965) la parte più aspra del pensiero di Pasolini doveva ancora venire, “Comizi d’amore” si colloca nel momento di passaggio fra i tormenti giovanili e quelli, irreversibili, della maturità.

Ma se gli artisti, gli intellettuali, i giovani studenti lo hanno già consacrato come un mito, Pasolini d’altro canto è sempre più scomodo, inviso allo stato, al ceto medio, alla politica, alla chiesa, alle istituzioni tutte. Più di qualcuno si dichiara parte civile nei 33 Processi a suo carico. Le accuse sono pesanti, gravose e fantasiose, c’è chi depose giurando che avesse un’arma in grado di sparare proiettili d’oro. Fu insieme mito e perseguito, con ogni pretesto: Da vilipendio alla religione di stato ad oscenità, fino a rapina a mano armata coadiuvata da una foto di scena in cui Pasolini impugna un mitra giocattolo. Evidentemente si è trattato in realtà di un unico, ininterrotto accanimento, durato vent’anni che metteva in dubbio la legittimità dell’esistenza di una personalità come Pasolini nella società e nella cultura italiana. Una vera persecuzione giudiziaria, di cui ha dovuto affrontare e sostenere tutte le spese, motivo di costante dolore e ancor più di solitudine, come confida in certe lettere in cui afferma di sentirsi terribilmente solo davanti a tutto quell’odio.

Durante uno di questi processi, a Pasolini fu ordinata una perizia psichiatrica rispetto alla quale mi sento in dovere di aprire una piccola parentesi rispetto allo stato delle cose in quegli anni in quanto ad omosessualità:

Nel 1952, l’American Psychiatric Association (APA), raccoglie in un manuale, il DSM, le definizioni e le descrizioni di molti disturbi mentali, classificandoli in base alla frequenza statistica delle loro caratteristiche. Dal 1952 a oggi, il manuale ha visto 5 rivisitazioni in considerazione dei cambiamenti, nel tempo e nelle diverse culture, della diffusione e dell’incidenza delle sofferenze psichiche.

Nella sua prima versione, l’omosessualità risultava tra i “Disturbi sociopatici di Personalità”.

Nel 1968 era considerata una deviazione sessuale, come la pedofilia, catalogata tra i “Disturbi Mentali non Psicotici”. Nel 1970 la comunità LGBT inizia a rivendicare i propri diritti civili nei Paesi Occidentali. Questa rivendicazione ha ripercussioni anche sul mondo scientifico che si trova spinto a rivedere le teorie riguardo l’omosessualità.

Ricerche svolte a cavallo degli anni ‘50 evidenziano come almeno il 37% della popolazione maschile e il 13% di quella femminile abbia avuto qualche esperienza di omosessuale tra la pubertà e la vecchiaia. Più di un uomo su tre, per intenderci. E negli anni ’50 in cui la cosa più legittima concessa era rinnegare e vergognarsi.

La ricerca evidenzia che “se l’omosessualità persiste su così vasta scala nonostante la riprovazione pubblica e la severità delle sanzioni che nel corso dei secoli la civiltà ha posto su di essa, si ha motivo di ritenere che tale attività comparirebbe con assai maggior frequenza nelle storie personali se non esistessero impedimenti sociali”.

Nonostante ciò, sarà solo nel 1990, che l’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS) deciderà di depennare l’omosessualità dall’elenco delle malattie mentali.

La Perizia psichiatrica su Pasolini, affidata a  Semerari, punta il dito sulla sua omosessualità come infermità mentale. E pensare che sia Pasolini che Alda Merini, smaniosi di cercarsi e per non perdersi, furono tra i primi e voraci lettori di FREUD, Psichiatra e padre della psicanalisi.

Tutti ormai sono a conoscenza della febbrile urgenza che segna il confine tra Il Pasolini  di Giorno e quello notturno, tra l’intellettuale di prima grandezza e l’uomo alla disperata ricerca d’amore, e lo cerca nelle periferie più degradate dove di giorno insegue con la macchina da presa la povertà più scandalosa e luminosa e dove di notte offre la cena ai ragazzi di vita, con il cuore che batte dove la carne duole.

L’opinione pubblica si fa isteria collettiva, tutti celebrano e altrettanti lo denunciano e con le denunce arrivano anche le  aggressioni. Pasolini affrontava apertamente i detrattori, voleva confrontarsi con loro,  li cercava. Non era un violento ma era molto forte, scattante, sportivo. Aggredito, si sapeva difendere. Anche questo gli fu contestato perché come effemminato ci  si aspettava da lui che fosse debole, gentile, tollerante oltremisura come una donna del suo tempo, e non certo come le donne che ritraeva nelle sue opere, con cui girava il mondo, con cui discuteva da pari dello stato dell’arte e dei problemi sociali.  Tra le donne di cui amò circondarsi abbiamo visto Anna Magnani, possiamo pensare a Oriana Fallaci,  la Callas ,  Dacia Maraini, accusata con e come Pasolini di essere pornografi di sinistra, scandalosi e perversi.

Oriana Fallaci scrisse una lettera a Pasolini dopo che fu ritrovato il suo corpo, su una spiaggia di Ostia. Si tratta di una lettera molto lunga e sofferta, di cui vi riporto un piccolo stralcio a sottolineare quanto amore e quanta preoccupazione provò per la sua sorte:

Ogni volta io avrei voluto agguantarti per il giubbotto, trattenerti, implorarti, ripeterti ciò che ti avevo detto a New York: “Ti farai tagliare la gola, Pier Paolo!”. Avrei voluto gridarti che non ne avevi il diritto perché la tua vita non apparteneva a te e basta, alla tua sete di salvezza e basta. Apparteneva a tutti noi. E noi ne avevamo bisogno. Non esisteva nessun altro in Italia capace di svelare la verità come la svelavi tu, capace di farci pensare come ci facevi pensare tu, di educarci alla coscienza civile come ci educavi tu.

E ti odiavo quando ti allontanavi su quella automobile con cui i tre teppisti t’avrebbero schiacciato il cuore. Ti maledicevo. Ma poi l’odio si spingeva in un’ammirazione pazza, ed esclamavo: “Che uomo coraggioso!”. Non parlo del tuo coraggio morale, ora, cioè di quello che ti faceva scrivere in cambio di contumelie, incomprensioni, offese, vendette. Parlo del tuo coraggio fisico. Bisogna avere un gran fegato per frequentare la melma che frequentavi tu, di notte. Il fegato dei cristiani che insultati e sbeffeggiati entrano nel Colosseo per farsi sbranare dai leoni.

Pasolini intervista Oriana Fallaci: è presente anche Camilla Cederna

L’omosessualità di Pasolini fu per lui, per primo e tra sé e sé, un travaglio indicibile, a cui da buon poeta provò a dar forma, come nella celebre poesia SUPPLICA A MIA MADRE, testimone di una profonda e intensa complicità, assoluta, ineguagliabile,  inespugnabile, irriproducibile con altra donna.

È dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia / e non voglio esser solo, io ho una infinita fame d’amore. Tu sei mia madre e la mia schiavitù.

Il rapporto con la madre, l’abbiamo accennato, fu emblematico anche per Alda, che ambiva ad imitarla e a sfuggire al tempo stesso al suo costante rimprovero: « Madre, così ho viaggiato per ogni dove non sapendo che il mio traguardo eri tu sola».

Pasolini ebbe a definire il suo come un “SELVAGGIO PUDORE” Ma non si dica che non seppe amare, ne è testimone una lettera che è una confessione piena,  che scrisse appena giunto a Roma ad una donna, Silvana Mauri, conosciuta a Milano da Bompiani.

Roma, 10 febbraio 1950

Carissima Silvana,
Adesso è già sera, e sono qui con la tua lettera davanti agli occhi

Mi chiedi di parlarti con verità e con pudore: lo farò, Silvana, ma a voce, se è possibile parlare con pudore di un caso come il mio: forse l’ho fatto in parte nelle mie poesie.

Posso solo dirti che la vita ambigua – come tu dici bene – che io conducevo a Casarsa, continuerò a condurla qui a Roma. E se pensi all’etimologia di ambiguo vedrai che non può essere che ambiguo uno che viva una doppia esistenza.
Per questo io qualche volta – e in questi ultimi tempi spesso – sono gelido, «cattivo», le mie parole «fanno male». Per l’ossessionante bisogno di non ingannare gli altri, di sputar fuori ciò che anche sono. Non ho avuto un’educazione o un passato religioso e moralistico, in apparenza: ma per lunghi anni io sono stato quello che si dice la consolazione dei genitori, un figlio modello, uno scolaro ideale… Questa mia tradizione di onestà e di rettezza – che non aveva un nome o una fede, ma che era radicata in me con la profondità anonima di una cosa naturale – mi ha impedito di accettare per molto tempo il verdetto. Non so se esistano più misure comuni per giudicarmi, o se non si deve piuttosto ricorrere a quelle eccezionali che si usano per i malati. La mia apparente salute, il mio equilibrio, la mia innaturale resistenza, possono trarre in inganno… Ma vedo che sto cercando giustificazioni, ancora una volta… Scusami – volevo solo dire che non mi è né mi sarà sempre possibile parlare con pudore di me: e mi sarà invece necessario spesso mettermi alla gogna, perché non voglio più ingannare nessuno –. Basta con le mezze parole, bisogna affrontare lo scandalo, mi pare dicesse San Paolo…. Coloro che come me hanno avuto il destino di non amare secondo la norma, finiscono per sopravalutare la questione dell’amore. Uno normale può rassegnarsi – la terribile parola – alla castità, alle occasioni perdute: ma in me la difficoltà dell’amare ha reso ossessionante il bisogno di amare. La vita sessuale degli altri mi ha fatto sempre vergognare della mia: il male è dunque tutto dalla mia parte? Mi sembra impossibile. Comprendimi, Silvana, ciò che adesso mi sta più a cuore è essere chiaro per me e per gli altri: di una chiarezza senza mezzi termini, feroce. Credo dunque che resterò a Roma  tanto più che non ho intenzione non solo di conoscere, ma neanche di vedere i letterati, persone che mi hanno sempre atterrito perché richiedono sempre delle opinioni, mentre io non ce n’ho. Ho intenzione di lavorare e di amare, l’una cosa e l’altra disperatamente.

Da quando mi hai aperto la porta a Bologna, e mi sei apparsa sotto la figura di una «madonna del duecento» (credo di avertelo detto) tu sei stata sempre per me la donna che avrei potuto amare, l’unica che mi ha fatto capire che cosa sia la donna, e l’unica che fino a un certo limite ho amato. Tu capisci cos’è quel limite: ma ora devo dirti che qualche volta, non so né come né quando, l’ho varcato, timidamente, pazzescamente, ma l’ho varcato. Ma io non ti ho mai detto niente della mia tenerezza, perché non mi fidavo di me. Non farmi aggiungere altro, capiscimi. Nel mio ultimo biglietto ti ho scritto che tu eri l’unica, fra tutti i miei amici, con cui mi riusciva di confidarmi: e questo semplicemente perché sei l’unica che io ami veramente, fino al sacrificio. Per te, per esserti d’aiuto o di conforto, farei qualsiasi cosa senza la minima ombra d’indecisione o di egoismo.

Ora qui la tua lettera, se la guardo, mi commuove ferocemente, mi sento le lacrime agli occhi: penso a quello che ho perduto, allo spreco della mia vita nella quale non ho saputo accogliere te.

Arriviamo agli anni 70: Pasolini pubblica nel 72 Empirismo eretico che, insieme a Scritti corsari, del 1975, compone quello che si può definire il suo testamento artistico e spirituale: le sue ricerche stilistiche e la sua filosofia sull’arte l’uno  e sulla società l’altro: questioni sociali che coinvolgono, e dividono, che fanno riflettere e discutere, che interrogano la coscienza di milioni di persone. Tematiche ancora attuali che accesero grandi scontri culturali a quel tempo, pensiamo all’aborto, al divorzio, al rapporto tra sessualità e omosessualità. Che Pasolini affronta senza indulgenza.

Nel frattempo 72 Alda Merini esce, finalmente, dal manicomio: provata certo, ma anche più libera, più limpida, e più forte.

Pasolini continua a sfornare pellicole sempre più scomode: Nella sua Trilogia della vita già il solo Decamerone, da solo, colleziona 80 denunce e 12 milioni di spettatori, praticamente metà dell’intero popolo italiano dell’epoca.  Lo spettatore da scandalizzato diventa angosciato, terrorizzato di fronte alla sessualità promiscua finisce per accusare ma ha ormai bisogno di guardare come nel più inquietante specchio rivolto verso l’interno di sé.

Pasolini in queste opere manifesta d’aver perso la speranza nella realtà ma non rinuncia mai a descriverla con parole corsare che sembrano rivolgersi ai posteri. Anche le battaglie giudiziarie che un tempo erano il suo terreno di lotta, non lo appassionano più. Non si presenta più nemmeno in tribunale. Sposta la sua denuncia solo nella sua produzione artistica, in un paese senza giustizia e  senza speranza Pasolini sferra il suo attacco finale. Siamo nel 1975 e Pasolini gira “Salò o le 120 giornate di Sodoma”. Nessun regista italiano ha mai osato tanto: è un film cupo, raggelante, con immagini di cui è impossibile sopportare la vista, un pugno in faccia agli spettatori, un’opera di non ritorno. Non riuscirà ad assistere alla prima così come non riuscirà a terminare il suo ultimo romanzo inchiesta, Petrolio, iniziato parallelamente alle riprese.

Il suo lavoro è caratterizzato da una frenesia crescente, una fretta come di chi sa che ha  quasi esaurito il tempo che ha a disposizione. La disperazione lo porta a scrivere quelle che sono giunte a noi oggi come le sue ultime parole:

«Le persone più adorabili sono quelle che non sanno di avere dei diritti.

Sono adorabili anche le persone che, pur sapendo di avere dei diritti, non li pretendono o addirittura ci rinunciano. Sono abbastanza simpatiche anche quelle persone che lottano per i diritti degli altri (soprattutto per coloro che non sanno di averli). Ci sono, nella nostra società, degli sfruttati e degli sfruttatori. Ebbene, tanto peggio per gli sfruttatori. Ci sono degli intellettuali, gli intellettuali impegnati, che considerano dovere proprio e altrui far sapere alle persone adorabili, che non lo sanno, che hanno dei diritti; incitare le persone adorabili, che sanno di avere dei diritti ma ci rinunciano, a non rinunciare; spingere tutti a sentire lo storico impulso a lottare per i diritti degli altri; e considerare, infine, incontrovertibile e fuori da ogni discussione il fatto che, tra gli sfruttati e gli sfruttatori, gli infelici sono gli sfruttati.

Dimenticare subito i grandi successi: e continuare imperterriti, ostinati, eternamente contrari, a pretendere, a volere, a identificarvi col diverso; a scandalizzare; a bestemmiare».

Si conclude così l’intervento che #PierPaoloPasolini  avrebbe dovuto tenere al Congresso del Partito radicale del novembre 1975. Poté essere solo letto, davanti ad una platea sconvolta e muta, perché due giorni prima Pasolini fu ucciso. Siamo nel 1975, nella notte tra 1 e 2 novembre all’idroscalo di Ostia.

Il suo corpo viene ritrovato al mattino, massacrato al punto da sembrare un informe mucchio d’immondizie. Il suo assassinio è rimasto avvolto dal mistero, poco o niente han potuto gli amici che negli anni han chiesto più volte di riaprire il caso.

Trentaquattro anni più tardi nel giorno di Ognisanti anche Alda Merini lascerà la sua vita terrena. Ma prima ha un gran tempo da recuperare, dopo il lungo silenzio manicomiale. Scrive i suoi capolavori, da La Terra Santa, a L’altra Verità, e Delirio Amoroso.

Ne La Terra Santa scrive in versi paragonando il manicomio all’esodo verso la Terra Santa: quando amavamo ci facevano gli elettrochoc perché, dicevano, un pazzo non può amare nessuno.

Ne L’altra verità prosegue in prosa, e in una nota conclusiva afferma di far dono della sua opera alla comunità scientifica affinché la psichiatria si faccia più umanistica e dice:

Non esiste pazzia senza giustificazione e ogni gesto che dalla gente comune e sobria viene considerato pazzo coinvolge il mistero di una inaudita sofferenza che non è stata colta dagli uomini.”“Perché la pazziaamici miei, non esiste. Esiste soltanto nei riflessi onirici del sonno e in quel terrore che abbiamo tutti, inveterato, di perdere la nostra ragione”.

nel Delirio Amoroso riprende le fila della sua storia, aggiunge le più recenti delusioni, condensa il suo dolore in un flusso di coscienza fatto di immagini recuperate dal cappello della memoria, compromessa dagli elettroschok eppure a  tratti gravida e vivida, del particolare e delle sue ramificazioni di senso, un viaggio nella sua mente, in un giorno qualunque, tra le sue ossessioni e la sua meraviglia, con ironia e leggerezza:

“Il Naviglio, stanco, riottoso, difficile, antico, stracarico, colpevole, puttanesco, drogato di sogni, ritoccato dalla mano sapiente del consumismo, oggi sembra un’allegra prostituta ballonzolona.

Ricordo invece le pietre nude, i paradossali momenti della follia, le bestemmie, le cicche delle lavandaie, i miei figli che languivano nella fame, le autoambulanze che mi portavano via e mi riportavano indietro a seconda degli umori. Le turbe dei miei scolari, il mio pianoforte. Le canzoni libere, gli osanna dei demoni. Il tavolo vuoto di amicizie e l’ansia di una madre che stava per partire per un eremo e ne era consapevole. Quanto amore e solitudine! Il Naviglio, struggente come una lacrima. Il mio viso, una grande lacrima del Naviglio.

La gente al mio ritorno mi ha riconosciuta, soppesata, dileggiata, offesa, respinta e riaccettata. Dovevo chiedere scusa a ogni donna di malaffare, ad ogni lavandaia, ad ogni oste di essere una poetessa. Quante volte ritornai in questa casa con in bocca un ramoscello di pace. E quel ramoscello di vita mi era stato consegnato alla porta di un istituto manicomiale insieme alla colomba che l’aveva portato. Una colomba che aveva il ventre gonfio d’amore e voleva generare. Generare all’infinito, ma consapevole che le sue uova sarebbero state aperte da una mano nemica.

Volete sapere come si conclude?

Pubblico questo libro per fame, non perché abbia voglia di scriverlo. Lo pubblico perché qualcuno ha bleffato. Perché ho bisogno di denaro. Perché le grandi opere sono state dettate da un profondo appetito psicologico e morale. E anche corporeo.

Andare tutti i giorni al “Centro” mi costa paura, chiacchiere, diffamazioni e vergogna. Vergogna perché è una centro assistenziale per poveri e perché come poeta non mi piace la promiscuità. Ma i poveri si attaccano a tutto ciò che tende loro una mano, per salvarsi. Passano attraverso mille naufragi, attaccandosi violentemente alla propria disperazione finché muoiono tutti in un identico fango.  Ho cercato un uomo che salvasse questa mia speranza. Non l’ho trovato. Non l’ho trovato in tempo. Cadrò nel gorgo. Se non mi aiutano impazzirò di certo anzi sono già folle”.  

ED è solo a questo punto che il grande pubblico la scopre. Partecipa ad una trasmissione in televisione. Incanta, commuove, è pure simpatica. A suo agio, libera, imprevedibile come gatta, sorridente, giocosa, timida ma con grandi cappelli a tesa larga, bigiotteria vistosa, il rossetto sbafato dalle sigarette che fuma in continuazione. Alda ha 58 anni nel 1989, ed è maliziosa, e profonda, gaia e disperata come un’innocente. La storia del suo internamento poi, fa audience.

Viene invitata sempre più spesso nei programmi Tv e E lei va, ospite da Costanzo, da Chiambretti, da Bonolis e attraverso la tv arriva in ogni salotto italiano. Con i suoi vestiti macchiati, lo smalto rosso consunto, tanto trucco, tanti orpelli, nessun dente sopravvissuto agli elettroshock. Incalzata sugli orrori subiti, ci porta a domicilio la condizione di poeta, tutta la sua onestà, il suo dolore e la sua fiducia nella provvidenza e nell’amore. Nonostante tutto.

Ha una saggezza indicibile, come di bambina, e alla gente arrivano chiare le sue parole. Ci trovano dentro tutto quel che a ciascuno serve per sentirsi migliore, per sentir riaccendersi la scintilla della speranza in un vecchio motore.

Alda Merini è povera. I suoi libri vendono, i suoi editori sono grandi, i suoi diritti d’autore non sono tutelati a dovere, ma a lei non importa. Regala le sue poesie ai passanti, le baratta per un panino e una coca cola, le lascia sui gradini della chiesa, sopra ogni cosa preferisce distribuirle tra i giovani più belli e più vispi che incontra. La casa  della poesia non conosce porte diceva, e anche nella sua casa era un continuo via vai di ammiratori di giorno, ché di notte quando il silenzio si fa insopportabile si attacca al telefono e più di qualcuno, le lo sapeva, lo spegneva prima. D’inverno, ché d’estate una volta si fece recapitare una vasca idromassaggio nell’ufficio del suo editore e un’altra denunciò la scomparsa di un amico in vacanza ai carabinieri e un’altra ancora minacciò di farsi saltare col gas, e glielo tolsero.

Le viene infine concesso il Vitalizio della legge Bacchelli, dopo che un comitato battagliero di firme illustri sostiene la sua causa e la sua condizione di indigente in un piccolo appartamento di ringhiera sui navigli, malmesso e ingombro di mozziconi di sigaretta e bicchierini di caffè d’asporto. Ma di quel denaro Alda non sa che farsene, e lo distribuisce per lo più tra i senzatetto del quartiere.

E così io continuo a girare per Milano, con questa sorta di peso ai

piedi e dentro l’anima. Altro che Terra Santa! Il denaro mi fa paura. Forse perché in manicomio non ne avevamo mai. Quando fuori hanno provato a darmelo, non sapevo che farmene, e lo spendevo male. Ma avevo tante voglie segrete. Per esempio, una voglia di piangere, intensa, su quelle banconote.

Proverbiale in suo intervento a Il senso della vita da Bonolis:
La vita non ha senso, anzi è la vita che ti dà un senso, sempre che noi la lasciamo parlare, perché prima dei poeti parla la vita, dobbiamo ascoltarla la vita.
Il poeta soffre molto di più, però ha una dignità che non si difende neanche alle volte, è bello accettare anche il male. Una delle prerogative del poeta, che è anche stata la mia, è non discutere mai da che parte venisse il male, l’ho accettato ed è diventato un vestito incandescente, è diventato poesia, ecco il cambiamento della materia che diventa fuoco, fuoco d’amore per gli altri anche per chi ti ha insultato!

Qui è racchiuso tutto il senso del suo spirito indomito eppure così accogliente, che  non si ferma a guardare da quale parte arriva il male ma lo sa attraversare.

Alda racconta il dolore come “Una traccia di nero nella coscienza, un segno di demarcazione, una cancellazione improvvisa. Qualcuno che ti ha sfregiato, ma più che sfregiato ti ha sepolto, ti ha dimenticato.

Nel mio andare per i Navigli ho sempre parlato ed aiutato tutti quelli che mi tendevano la mano; è anche grazie a loro, grazie a ciò che mi hanno insegnato che io ho fatto e faccio poesia”.

Quando è morta al suo funerale, in Duomo a Milano, qualcuno dice che ad un certo punto si siano spalancate le porte e un esercito di barboni sia entrato a porgerle l’ultimo saluto, mischiando al profumo dell’incenso gli odori della strada.

I funerali di Alda Merini nel Duomo di Milano

A questo punto possiamo tirare in qualche modo le somme dei vari perché che accomunano le loro R-Esistenze

PERCHÉ hanno condiviso un tempo storico comune: gli anni dell’illusione fascista, la seconda guerra mondiale, la ricostruzione e il boom economico. Sul piano culturale c’è l’avvento della  radio, poi della televisione. La giovinezza, gli anni d’oro del cinema dal neorealismo alle figure dell’assurdo, da Totò a Paolo Villaggio, al quale Alda fu sempre grata per averle salvato  la vita strappandole qualche risata negli anni troppo lunghi trascorsi fuori tra quattro mura completamente ignara del mondo fuori ed ignorata. E poi La musica del cantautorato, eversiva, dissacrante e gaia, socialmente impegnata e romantica insieme, da De André che dedicò alla memoria di Pasolini la sua celebre Una storia Sbagliata

La canzone fu commissionata a De André dalla Rai, per fare da sigla al programma Dietro il processo sulla morte di Pasolini e tutti i non detti di quel fattaccio, incarico che De André accolse con grande trasporto perché:

«…a noi che scrivevamo canzoni, come credo d’altra parte a tutti coloro che si sentivano in qualche misura legati al mondo della letteratura e dello spettacolo, la morte di Pasolini ci aveva resi quasi come orfani. Ne avevamo vissuto la scomparsa come un grave lutto, quasi come se ci fosse mancato un parente stretto.»

(Fabrizio De André)

E ancora Dalla, che a casa di Alda suonava il piano, e finì per tributarle più di un concerto in Duomo, con un’intera orchestra, e ancora Guccini, Gaber, Vecchioni, con la sua Canzone per Alda Merini, composta dopo una illuminante chiacchierata con lei e tutte le osterie fumose in cui imbracciare una chitarra e sbirciare che vita fanno quelli che girano di notte e non hanno paura di niente. Che sapersi divertire è un privilegio di chi si è cercato a lungo come di chi non si è cercato affatto.

“Amo ferocemente, disperatamente la vita. E credo che questa ferocia, questa disperazione mi porteranno alla fine. Amo il sole, l’erba, la gioventù. L’amore per la vita è divenuto per me un vizio più micidiale della cocaina. Io divoro la mia esistenza con un appetito insaziabile”. PP

PER i loro rapporti con l’istituzione, dalla famiglia all’istruzione, alla chiesa e allo stato, tra ospedali  e tribunali. Pe il loro schierarsi con il perdente, perché hanno in comune la condizione d’esser diversi, poeti e folli, appassionati, coraggiosi,  religiosi a modo loro, perseguiti, condannati, umiliati da, etichette sempre troppo strette e vita che chiama dalla strada.

Scrisse Pasolini ne IL PC AI GIOVANI, scioccandoli:

Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte
coi poliziotti,
io simpatizzavo coi poliziotti!
Perché i poliziotti sono figli di poveri.
Vengono da periferie, contadine o urbane che siano.
Quanto a me, conosco assai bene
il loro modo di esser stati bambini e ragazzi,
le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui,
a causa della miseria, che non dà autorità.
La madre incallita come un facchino, o tenera,
per qualche malattia, come un uccellino;
i tanti fratelli, la casupola
tra gli orti con la salvia rossa (in terreni
altrui, lottizzati); i bassi
sulle cloache; o gli appartamenti nei grandi
caseggiati popolari, ecc. ecc.
E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci,
con quella stoffa ruvida che puzza di rancio
fureria e popolo. Peggio di tutto, naturalmente,
e lo stato psicologico cui sono ridotti
(per una quarantina di mille lire al mese):
senza più sorriso,
senza più amicizia col mondo,
separati,
esclusi (in una esclusione che non ha uguali);
umiliati dalla perdita della qualità di uomini
per quella di poliziotti (l’essere odiati fa odiare).
Hanno vent’anni, la vostra età, cari e care.

Solo l’amare, solo il conoscere
conta, non l’aver amato,
non l’aver conosciuto. Dà angoscia
il vivere di un consumato
amore. L’anima non cresce più.

Scontri tra poliziotti e studenti a Valle Giulia

Con la raccolta Le ceneri di Gramsci Pasolini fu universalmente celebrato e insignito del Premio Viareggio nel ’57, (lo stesso premio che vinse anche Alda Merini quasi quarant’anni più  tardi con Ballate non pagate). Sulla sua opera si espresse nientemeno che Italo Calvino, e disse così:

è questa la poesia di cui abbiamo bisogno: una poesia che si possa discutere, che tocchi le contraddizioni del mondo in cui ci muoviamo, che faccia venire preoccupazioni nuove, anche che irriti, che rompa le scatole!…

In soli 15 giorni tutte le copie disponibili furono vendute.

Pasolini  ironizzava senza mezze misure sui “santini sacrileghi” di Alda, sulla sua carnalità intrisa di misticismo. Alda non capiva perché, e lo tiranneggiava coi suoi scherzi, mentre si aggirava rapido e assorto per le vie di Milano mentre lei lo seguiva con lo sguardo.

Era fattivo, volitivo, tempestoso. Fu con somma meraviglia che io mi vidi citata proprio da lui, su Paragone, nel 1954. Lui che aveva sempre sdegnato le mie rincorse, i miei tentativi giovanili di seduzione: Pasolini mi distanziava quasi sempre di un paio di metri, frettoloso e asciutto, guardandomi in tralice. Era l’unico che non mi faceva la corte.

Pasolini diceva che ero un’ostia sconsacrata

Era uno, quello lì, che ci vedeva lungo. Lo desideravo, lo sbeffeggiavo e gli correvo dietro dicendo, non so per quale intuizione divina: “Ma quando ti volti a guardarmi?”. Difatti Pasolini mi guardò, ma solo di sbieco, e parlò di me come di una ragazza impertinente milanese che però aveva sentito l’odore del genio.

Continuai a pedinare Pasolini per tutta la vita, per sapere, vanità femminile, che cosa aveva fatto del mio ricordo.

Alda Merini era erotica, e convinta che

Per adorare l’anima  bisogna tener conto del corpo. Negare il corpo vuol dire negare l’arte, e negare l’arte vuol dire negare l’anima

A sua volta, Pasolini riassunse in un’unica e chiara risposta tutti i moralismi a suo carico: “Il corpo: ecco una terra non ancora colonizzata dal potere.”.

Ancora Alda Racconta che:

«Il poeta è quasi sempre lurido. È povero per vocazione. È povero perché questo gli consente di essere libero: il poeta è un dissidente, ma è anche un grande amatore. Un giorno, per via di questa vocazione amorosa, contattai un uomo. Non era bello, e pareva schiacciato da una sorta di cattiveria: la cattiveria di colui che ha subito del male e non se ne vuole disfare ma se lo tiene dentro per masticarlo e per divorarlo giorno dopo giorno. C’è gente che rumina il dolore e che ne fa la propria prigione e il proprio deciso sentimento di vita.
Quell’uomo venne da me ed esaminò il televisore. Poi mi guardò con strafottenza chiedendomi se volevo venderlo. Si, volevo realizzare del denaro subito. Il suo sguardo andava dal televisore al mio corpo seminudo. Era un pomeriggio d’agosto. Compresi il suo sguardo e volli esaudirlo facendo l’amore. Poi se ne andò e non tornò più, e ora lo stringo soltanto nel pensiero di quell’unico incontro, di quell’unico disfacimento a due. Mentre ci stringevamo su quel letto che non era esattamente “il nostro”, qualcuno in strada cantava “Pazza Idea”. Allora ci guardammo con stolida complicità e continuammo a baciarci forsennatamente con rabbia.
Non lo vidi più. In quello strano rapporto d’amore che pareva una lotta, avevamo bruciato entrambi una figura di sogno».

Tante urgenze e malcelate e poi ostentate libertà ebbero in comune, Pier Paolo Pasolini e Alda Merini soprattutto furono entrambi scandalizzati dallo scandalo del perbenismo. A causa di un ingombrante pregiudizio del normale sono stati entrambi condannati, fraintesi, giudicati e emarginati.

Si sono sempre rialzati, fino all’ultimo giorno utile sono stati coerenti nel portare avanti sé stessi interi, come se il proprio mistero fosse parte integrante di un tutto indicibile ed essenziale al loro peculiare modo di fare di ogni occasione un capolavoro. In crescendo di produttività frenetica.

In prossimità con chi, come loro, era escluso dalla società “perbene” trovando nei poveri e nei pazzi, gli unici superstiti della società dei consumi. In grado di splendere, a margine rispetto alla logica della maggioranza.

„Più mi lasciano sola più splendo.“ —  Alda Merini, libro Aforismi e magie
„T’insegneranno a non splendere. E tu splendi, invece.“ —  Pier Paolo Pasolini Lettere Luterane

PERCHÉ si sono incontrati, scrutati, studiati, inseguiti, recensiti, scritti lettere andate perdute, e anche quando si son persi di vista si son rimasti accanto, dalla stessa parte. Le loro opere procedono parallele e speculari: lui immortala angoli di periferie e di mondi che siano simboli, stimoli per il pubblico per mettersi in discussione, aprire gli occhi, svegliarsi dal torpore di una sudditanza che si stenta quasi, ormai, a riconoscere ma che ci tiene a briglia stretta.

Lei parte da sé, scrive per sé, per sbrogliarsi, come le hanno suggerito i medici, e attraverso se stessa offre a ciascuno come uno specchio in cui cercarsi e riconoscersi, come una strega, come una sirena, incanta e rapisce e stordisce quel suo far sentire forte il sentimento sulla pelle di ogni persona del pubblico, dal lettore allo spettatore, nelle sue partecipazioni a teatro, in tv e al cinema, protagonista di innumerevoli film documentari che l’hanno vista protagonista.

CONCLUSIONI

Lo scopo del nostro lavoro è generare curiosità, voglia di approfondire. Quest’anno Pasolini avrebbe compiuto cent’anni, Alda Novantuno. Hanno speso entrambi una vita intera per rivolgersi a noi che ancora siamo tutti lì, inchiodati alla croce delle nostre paure, del quieto vivere, dell’abitudine, della nostra libertà apparente che ancora non sempre ci riesce di smascherare.

Indagine su Alda Merini: non fu mai una donna addomesticabile; è un tentativo di scardinare certi punti fermi, che fan comodo finché non ci caschiamo nel mezzo; è un omaggio ad una donna che prima di noi ha attentato a certe ipocrisie che ci leniscono il senso del sé prima di incrociare il nostro sguardo, quello autentico e disfatto, eppure ancora vibrante nello specchio.

La Merini e Pasolini sono stati, entrambi, vicini ai giovani di più generazioni, e oggi ancora sono iconici nell’immaginario come due ribelli contemporanei, come nuclei incandescenti di passioni contrastanti e di genio, come martiri di ingiustizie subite, persecuzioni e torture eppure vincenti, sulla scommessa del tempo, per quel che han creato, immaginato e narrato, e per il fatto di non essersi mai tirati indietro rispetto a quel che la vita ha dato e voluto in cambio da loro. Ringraziando, per giunta:

Stupenda e misera città, che m’hai insegnato ciò che allegri e feroci gli uomini imparano bambini,
le piccole cose in cui la grandezza della vita in pace si scopre, come andare duri e pronti nella ressa
delle strade, rivolgersi a un altro uomo senza tremare, non vergognarsi di guardare il denaro contato …
a difendermi, a offendere, ad avere il mondo davanti agli occhi e non soltanto in cuore, a capire
che pochi conoscono le passioni in cui io sono vissuto:
che non mi sono fraterni, eppure sono fratelli proprio nell’avere passioni di uomini che allegri, inconsci, interi vivono di esperienze ignote a me. (il pianto della scavatrice)

In quanto alla Merini, riporto il suo racconto su Titano,  un senzatetto che accolse nella sua casa troppo vuota una notte a capodanno:

«Ecco, ad esempio Titano, un uomo abbandonato, sfrattato, che moriva sul marciapiede e che io raccolsi, che è stato con me cinque anni, è stato un grande compagno anche d’arte. Quando l’ho rivestito, tutti lo guardavano, era un uomo bellissimo.

Cos’avrei dovuto fare? L’ho salvato dalla miseria. Era un barbone, ma anche un gran personaggio dei Navigli. Quando lo incontrai per la prima volta era moribondo: “Perché sta morendo?” gli chiesi. “Mi hanno rovinato le donne” rispose. Lo invitai a casa. Di giorno lo mandavo via, lo mettevo alla porta, e lui riprendeva il suo vagabondare di barbone. Di notte però, tornava sempre.

C’era in quel suo volto stanco, scavato dalla nevrosi, anche qualche cosa di leggero, di magico, di assente. Mi ricordava il cielo, il mare. Titano che a un certo punto, si prendeva la faccia tra le mani e cominciava a piangere come un bambino. Una volta mi disse una cosa molto semplice: “Ogni uomo ha bisogno di amore”. La teoria di Titano era questa.

Quest’uomo per anni, la sera, mi suonava il citofono e diceva “Signora Merini come sta?” era l’unico che mi salutava. L’ho accolto in casa mia perché non aveva casa. Aveva una gamba in cancrena, aveva molto freddo. Ma è stato lui poi che mi ha scaldata nei peggiori momenti della mia vita.

Anch’io ho ricevuto molto da lui: il fatto di poter dare qualcosa a qualcuno è già di per sé un dono, come la poesia. Titano in un certo modo è una mia poesia, un regalo alla vita».

 

CI DICHIARIAMO DISARMATI

Con questa affermazione Pasolini presenta Alda Merini al suo esordio sulla scena poetica, ed è un’affermazione profetica, perché veramente la Merini priva di strumenti e precocemente aveva manifestato una intuizione poetica di grandissimo spessore che poi sarebbe diventata una grandezza primaria del panorama contemporaneo.

Ma in questa stessa affermazione, parlando metaforicamente per entrambi, c’è un render chiaro, manifesto, riflessivo e autonomo, a dispetto di tutte le etichette, d’esser si, forse privi di strumenti, svantaggiati, ma pronti: disperati, appassionati, coraggiosi e innamorati, della vita e di tutti i suoi risvolti, affamati di vita, generosi di vita, fedeli alla vita  anche se è in loro un mistero che non si risolve, un dolore che non si placa, una voragine. Il senso ultimo della loro ira e della loro cura. È una sfilza di dichiarazioni d’amore, la loro.

È sia intento che mezzo, è l’arte che hanno scelto come megafono, come modo di stare al mondo, di rapportarsi al mondo, e il loro contributo a renderlo un po’ migliore, un po’ più aperto e cosciente.

E io qui oggi sono felice di ricordarli insieme.

Margherita Caravello

Le foto della serata alle Terme Tamerici sono di Laura Biggi.